Ancora oggi, il rifiuto è il movente di molti omicidi.
Eppure, dovrebbe essere espressione fondamentale di libertà, un diritto in nessun modo negoziabile.
Si può morire per un "no"?
C'è una cosa che mi colpisce sempre quando leggo le cronache. Non è tanto la violenza in sé, che pure fa impressione. È il silenzio che viene dopo. Quel silenzio pesante come una pietra, che cala quando una vita si spezza per un rifiuto che non è stato accettato.
Ora, io non sono uno psicologo, né un sociologo. Sono solo uno che osserva e che ogni tanto si fa delle domande. E la domanda che mi faccio è questa: ma come è possibile che nel 2025 dire "no" sia ancora così pericoloso?
Perché vedete, dire "no" dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo. Come bere quando si ha sete o dormire quando si è stanchi. Un gesto umano elementare che dice: "Io sono io, tu sei tu, e io scelgo per me stesso". Punto. Fine della storia.
Invece no. Quel "no" diventa un problema. Diventa un'offesa. Diventa qualcosa da punire. E allora uno si chiede: ma da quando la libertà di una persona è diventata un'offesa per un'altra?
Forse il problema è che confondiamo le cose. Confondiamo l'amore con il possesso. Il desiderio con il diritto. La passione con la proprietà. E così quando l'altro dice "no", non lo sentiamo come una scelta legittima. Lo sentiamo come un furto. Come se ci stessero rubando qualcosa che era nostro.
Ma qui c'è un equivoco di fondo, vedete. Perché nessuno è nostro. Nessuno ci deve niente. Nessuno è obbligato a corrispondere i nostri sentimenti, i nostri desideri, le nostre aspettative.
La società ci insegna molte cose. Ci insegna a vincere, a non mollare mai, a perseverare. "Volere è potere", diciamo. "Chi la dura la vince". Motti bellissimi, per carità. Ma nessuno ci insegna l'arte di perdere. Nessuno ci spiega come si fa a essere respinti senza diventare dei mostri. Come si fa a lasciar andare qualcuno senza l'impulso di distruggerlo.
E così, quando arriva quel "no", non sappiamo che farcene. Lo viviamo come un'umiliazione. Come un affronto personale. Come se l'universo intero si fosse coalizzato contro di noi. E invece di accettarlo, cerchiamo vendetta.
Ora, io capisco che essere rifiutati fa male. Lo capisco benissimo. Ma c'è una differenza enorme tra soffrire per un rifiuto e trasformare quella sofferenza in violenza. Tra sentirsi feriti e decidere di ferire a propria volta.
Il punto è che ogni essere umano ha il diritto sacrosanto di dire "no". Di non voler essere quello che altri vorrebbero. Di non concedere quello che altri pretendono. Di andarsene quando non si sente più di restare.
E questo diritto non può essere messo in discussione. Non può essere negoziato. Non può essere violato.
Abbiamo bisogno di parole nuove, di modelli diversi. Di crescere una generazione che sappia perdere con dignità. Che sappia amare senza soffocare. Che sappia lottare senza annullare l'altro.
Chi non riesce ad accettare un rifiuto non ha bisogno di consolazione. Non ha bisogno di giustificazioni. Ha bisogno di capire una cosa semplice: che la libertà dell'altro viene prima di tutto. Prima dei nostri desideri, prima delle nostre aspettative, prima del nostro orgoglio ferito.
Perché alla fine, vedete, siamo tutti liberi. Liberi di amare con tutta l'intensità di cui siamo capaci. E liberi di non farlo. Liberi di restare. E liberi di andarcene. E questa libertà non è una colpa. Non è un peccato da espiare. È semplicemente quello che ci rende umani.
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Tag: Rifiuto, Libertà personale, Società consapevole, Libertà altrui
Negli ultimi dieci anni ho affrontato con passione diverse sfide personali e imprenditoriali, spinto dal desiderio di vivere con intenzione e non schiavo della routine. Miro ad essere sempre più padrone del mio tempo e consapevole delle mie scelte.
Sono l'autore delle Pillole di Consapevolezza, un progetto che incarna questo percorso di crescita e riflessione.
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