Alcune cose finiscono molto prima di quando ce ne accorgiamo.
Ma continuiamo a tenerle in vita per nostalgia, per abitudine, per non restare soli.
E se fosse proprio quel trattenere a impedirci di rinascere?
Facciamo un gioco: pensiamo a tutto ciò che ci sta dissanguando l'anima, in silenzio. Niente urla, niente scenate. Solo un lento stillicidio quotidiano. Quelle amicizie dove recitiamo un copione vuoto. Quel lavoro che paga le bollette ma ci ipoteca i sogni. Quelle relazioni emotivamente in coma che continuiamo a tenere in vita a forza di ricordi sbiaditi.
E allora, quanto ci costa restare dove non apparteniamo più?
Restare non è sempre fedeltà. A volte è solo autosabotaggio mascherato da buonsenso.
Non siamo bloccati perché stupidi. Siamo bloccati perché terrorizzati. Dal "poi", dal vuoto, dall'idea di ammettere che qualcosa è finito. E se è finito… chi siamo adesso?
La verità è questa: nella vita reale non ci sono sirene che suonano quando una fase è giunta al termine. Nessuno ci manda un messaggino per dirci "Ehi, è ora di chiudere questa porta e guardare avanti."
Ci arrivano solo segnali scomodi. Quel disagio che ci sveglia di notte. Quel vuoto nello stomaco a cui non riusciamo a dare un nome. Quelle parti che continuiamo a recitare, anche se dentro non ci crediamo più da un pezzo.
E allora ci specchiamo e ci chiediamo, sottovoce: "Perché stiamo ancora facendo tutto questo?"
E poi ci diamo la risposta più tossica di tutte: "Perché è sempre stato così."
L'abitudine, signori e signore, è la droga più potente del pianeta. Silenziosa, legale e socialmente approvata. Ma letale per l'identità.
Aspettiamo sempre il crollo per cambiare. Il tradimento per andarcene. L'esaurimento per dire basta. Perché? Abbiamo bisogno della tragedia per legittimare la nostra trasformazione?
Eppure non si tratta di scappare. Si tratta di avere il coraggio — sì, coraggio — di dire: "Questo è stato. Punto." Non punto e virgola. Non un "vediamo". Punto.
Non ci sarà nessun applauso quando molliamo. Nessun premio quando diciamo basta. Ma certe scelte non servono per impressionare gli altri. Servono per non perdere noi stessi.
A volte si resta per affetto, per timore e per abitudine, ma non possiamo evolvere se non accettiamo di perdere qualcosa.
La verità è che smettere può essere molto più coraggioso che continuare. Perché lo spazio per crescere non lo troviamo senza tagliare, chiudere, lasciare andare.
Ed è difficile perché ci sembra di tradire noi stessi, le nostre parole, i nostri sogni e le nostre promesse. Ma la vita è troppo breve per rimanere fedeli a decisioni prese da una versione di noi che non esiste più.
Cosa ci impedisce davvero di chiudere quel capitolo che sappiamo essere finito?
Il passato dovrebbe insegnarci, non trattenerci. Essere grati per ciò che è stato non significa doverlo portare con noi per sempre.
Chiudiamo il cerchio. Non perché abbiamo già pronto il prossimo. Ma perché restare in quello vecchio ci sta facendo marcire.
E qui arriva il colpo di scena.
Quando lasciamo andare, non troviamo il vuoto che avevamo temuto. Troviamo aria. Movimento. Forse, per la prima volta dopo tanto tempo, troviamo finalmente spazio per diventare chi stiamo cercando di essere da tempo.
Quindi, quando è arrivata l'ora, mettiamo la parola fine ai capitoli della nostra vita. Con gratitudine, non con amarezza. Anche se non sappiamo cosa verrà dopo. Perché solo quando chiudiamo deliberatamente un cerchio, la vita trova lo spazio per mostrarci cosa c'è oltre.
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Lavoro nel mondo digitale.
Negli ultimi otto anni ho intrapreso numerose sfide personali e imprenditoriali. Ogni giorno mi impegno affinché la mia quotidianità sia il riflesso del mio desiderio e non una passiva routine. Miro ad essere sempre più padrone del mio tempo e consapevole delle mie scelte.
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